Paola Zukar e Rossella Essence: due generazioni a confronto che ci raccontano il rap game italiano

Paola Zukar, manager di alcuni tra i rapper italiani più famosi e Rossella Essence, giovane dj e producer, ci hanno raccontato come si è evoluto il rap game in Italia e come le sneakers hanno influito sul mondo hip hop. Dell’iconicità di adidas Superstar e di come sia stata un po’ il simbolo e il cambiamento del rap negli anni.

Due generazioni diverse a confronto in un’interessante chiacchierata che ripercorre le fila dagli anni ’80, quando Paola intraprese un viaggio in America che le diede tanti nuovi spunti e quando i Run DMC cantavano “My Adidas”, fino a oggi, gli anni di Rossella, l’inizio della sua carriera e dei successi con Beba.

Date un’occhiata al video IGTV che le vede protagoniste sul nostro profilo Instagram.

R.: Come sono stati per te gli anni ’80? Hai fatto un viaggio oltreoceano che ti ha un po’ cambiato le prospettive della tua vita nella musica.

P.: È stato il viaggio che mi ha cambiato la vita. Sono andata a Washington perché avevo conosciuto a Genova un marine degli Stati Uniti con il quale avevo fatto amicizia. Lì ho trovato cose che a Genova neanche pensavo esistessero e ho comprato la mia prima felpa della collezione Run DMC x adidas. Riportare quelle cose a Genova e poi andarci in giro ti ricreava un mondo, era un’espressione di sé. Le Superstar, la collezione dei Run DMC esprimevano parte di te, far vedere alla gente cosa ascoltavi e quindi cosa pensavi sconvolgeva un po’ tutti. Era un piccolo atto rivoluzionario.

P.: Tu sei una generazione successiva alla mia, ti senti lo stesso rappresentata da queste cose?

R.: È da qualche anno che lo streetwear ha cominciato a prendere piede nella cultura giovanile secondo me. Con i miei amici ci si beccava e si diceva “andiamo a prendere quella scarpa”, perché il modo in cui ti vesti dice agli altri come sei, ti categorizza. Questa cosa mi piace molto.

Mi ricordo tantissimo anche io il video dei Run DMC, anche se l’ho visto molti anni dopo; ricordo però che al mio liceo le Superstar andavano tantissimo. In realtà la mia ribellione in quel periodo era non metterle, perché nella mia mente di adolescente volevo vestirmi in modo diverso. Ora penso invece che puoi anche indossare la stessa scarpa ma essere comunque diversa dalla massa.

P.: La tua generazione è molto dentro ai social: come ti vesti, come ti esprimi lo fai anche per avere un riscontro. Però questi profili diversi e questi capi di abbigliamento e scarpe differenti, alla fine convergono tutti in uno stesso punto. Come mai secondo te c’è questa pressione per essere tutti così uguali?

R.: Mi ci sono ritrovata dentro e non so dire perché. Anche io ho cominciato a seguire tanto lo streetwear negli ultimi anni e una cosa che ha scatenato questa mia passione è stato il trasferimento a Milano. A Napoli ero molto meno attenta a come mi vestivo, invece essere qua a Milano, il fatto che è la capitale della moda e quando vai a un evento ti guardano in un certo modo, mi ha spronata a finire in questo vortice che un po’ ti categorizza alla fine.

P.: Al di là del fatto che i social tendono a uniformare l’immagine, a crearne una alla quale devi per forza assoggettarti, tu hai fatto una cosa totalmente diversa. Come sei partita a cercare una cosa che non è neanche tanto popolare tra le ragazze della tua età?

R.: Non ho mai fatto le cose che facevano le ragazze della mia età. Sono sempre stata un po’ fuori dalle righe in tutto quello che mi piaceva fare. Ho iniziato con la musica quando ero piccolina perché a mia madre piaceva che suonassi il pianoforte e quindi mi ha fatto prendere delle lezioni, ma un po’ mi annoiavano. Quindi poi ho cominciato a suonare la chitarra che era più una cosa commerciale alla mia età, diciamo. Ero una ragazza abbastanza timida, non sono mai stata la leader della scuola, perciò la musica mi faceva esprimere.

In particolare, ricordo che il video di Fabri Fibra di “Applausi Per Fibra” mi ha aperto la mente, perché io ascoltavo musica rock, venivo da un altro mondo. Però quando ho notato quel video e ho visto Fibra dire quelle cose in televisione su MTV, sono rimasta scossa da questo modo di esprimersi sopra le righe, nonostante avessi alcuni amici che ascoltavano quelle cose lì e io li prendevo un po’ in giro. Ma quello che mi piaceva di più era la base di quel pezzo, e ho detto “come hanno fatto a farla?”. Così ho cominciato a cercare su Internet, perché una cosa molto importante della mia generazione è stato Internet, ha permesso a tanti ragazzi di fare musica. Quindi ho cominciato a produrre musica al computer, avevo 16 anni forse. Ero un po’ nerd, diciamo la verità.

Il primo pezzo che mi ha dato un po’ di notorietà, tra virgolette, è stato il pezzo con Ghemon “Smisurata Preghiera”. Lui mi ha scritto e abbiamo tirato su questo brano, mi ha dato fiducia. Finalmente qualcuno dell’ambiente si accorgeva di me. Secondo me tante ragazze non lo fanno perché é difficile che qualcuno si accorga di loro.

P.: Bisogna anche avere pazienza. Adesso dicono “eh ma il rap va fortissimo”, però quando ho iniziato io e pochi altri non era scontato. Era davvero una scommessa, nessuno pensava che poi avrebbe preso così tanto campo.

Secondo te cosa attira i ragazzi della tua generazione, ma anche quelli più piccoli, a questo genere?

R.: Secondo me il linguaggio esplicito, c’è sempre questo bisogno di ribellione. In questi anni è cambiato un po’ tutto nel modo di fare musica, nel modo di esprimersi, l’uso delle parole è differente rispetto a prima. Comunicano proprio cose diverse, il mondo è andato avanti e i ragazzini di oggi vogliono sentirsi dire determinate cose.

Invece, come ti è venuto in mente di fare la manager?

P.: Non mi è venuto in mente, sono vie della vita che si sono incrociate.
Quando ero in America sono andata a un seminario, la mia idea era quella di fare la giornalista, però mi piaceva raccontarlo, il rap.
Quindi, ho scoperto questo seminario a Miami, tutta una gradazione di colori di lavori diversi che stavano dietro agli artisti. Prima, appunto, il mio interesse era quello di intervistare gli artisti e raccontarli al di là della loro musica, dopodiché ho conosciuto tanti addetti ai lavori che mi hanno abbastanza colpito, effettivamente per quanto un artista possa essere grande, talentuoso e motivato, se non ha un team veramente coeso dietro fa molta più fatica. Ho visto che il manager aveva quella minima vena artistica per capire cosa può funzionare di più o di meno e soprattutto una vicinanza anche un po’ emotiva. Mi ha molto impressionato questa specie di cordata che si crea tra l’artista e il suo management, questa è la cosa che mi ha affascinato di più.

R.: In quale modo queste nuove figure che ci sono nel rap, come lo stylist ad esempio, hanno influenzato l’immagine di un artista?

P.: Tantissimo, ovviamente vanno di pari passo con l’immagine onnipresente che l’artista deve avere sui social. L’immagine è sempre stata la parte fondamentale del rap. A Washington, dove era appena finito il tour dei Run DMC in questo stadio che si è riempito di gente con la Superstar in mano, è stata l’immagine che ha vinto. Senza la moda, senza quell’immaginario lì, non so se sarebbe mai partito, perché tra l’altro la moda in certi Paesi, tipo l’Italia, arriva quasi prima che la musica. Sono arrivate prima le sneakers che il rap se ci pensi e le Superstar in particolare avevano fatto quella cosa là. La Superstar alla fine è veramente la scarpa più iconografica che esista, quella che è rimasta più nell’immaginario. Se tu pensi al rap pensi a quella, perché l’innovazione di portare una scarpa sportiva nella musica e metterla così tanto in primo piano togliendogli i lacci ha creato veramente una piccola ribellione. È sempre importante l’immaginario.

R.: Infatti, è più il creare un immaginario dietro una scarpa, perché la sneaker di per sé è iconica ma probabilmente non lo sarebbe stata senza tutto dietro, tutta la musica, il modo di portarla senza lacci o slacciata.

Ti volevo chiedere, tu sei la manager di Madame mentre io lavoro con Beba, abbiamo due stili diversi di fare rap e anche nel modo di proporsi sui social, e questo è molto interessante secondo me perché fino a poco tempo fa le rapper erano tutte un po’ fatte con lo stampino, poco femminili ecc.
Quindi io credo che sia dalla parte di Madame che di Beba ci sia un po’ di ribellione su questo stereotipo di genere. Beba tende a essere molto femminile perché abbiamo sempre creduto che portare la femminilità nel rap potesse ispirare tante ragazzine che invece guardavano la rapper come se volesse fare una cosa da maschio. Come influenza questa cosa il tuo lavoro con Madame?

P.: È un genere mega competitivo dove c’è ancora il rap fatto da uomini e il rap fatto da donne, e non è un tema che smarchi facilmente. C’è una ribellione anche in questo, il fatto di volersi imporre in un certo modo. Le ragazze oggi vogliono esprimersi e non esiste un genere in cui ti metti più a nudo del rap, perché lì c’è la scrittura, oltre ai tuoi beat, sei tu che ti metti a nudo davanti al pubblico e non è facile per una ragazza perché quando scrivi una cosa e la registri in una maniera così chiara poi devi anche difenderti. Credo che tutto questo percorso che stanno facendo le ragazze sicuramente in futuro sfocerà in qualcosa di molto più grosso.
Le ragazze adesso hanno sicuramente bisogno di più spazio.

R.: Lavoro con Beba da 3, 4 anni, forse 4 sono troppi. Io ero sicura nel periodo in cui ho conosciuto Beba che ci fosse il bisogno che il rap lo facessero anche le donne, volevo proprio seguire una ragazza che facesse rap. L’ho trovata su Facebook e sono rimasta molto colpita da come era vestita e ho pensato “finalmente c’è una ragazza che riesce ad esprimersi con liriche taglienti vestita in modo femminile”. Era uno schema che cambiava le cose, così le ho scritto e ho cominciato a lavorare con lei.