Nel 1932 lo scrittore britannico Aldous Huxley pubblicava una delle pietre miliari della letteratura fantascientifica. Anticipando il più celebre e fortunato “1984” di George Orwell, con il romanzo “Il Mondo Nuovo” l’autore dipingeva una delle società distopiche più corrotte mai immaginate. Dieci governatori mondiali, l’ossessione per la produzione in serie, il controllo delle nascite in laboratorio, sesso e droghe come anestetizzanti per i dolori della vita. Di fatto una nuova e terribile società che, sotto il dominio di un regime totalitario, vede nella tecnica e nella tecnologia i migliori strumenti per il controllo, lo sfruttamento e la sottomissione delle persone. Il tutto portando all’estremo il mito di Ford – il padre della catena di montaggio e della razionalizzazione della produzione industriale – che era stato divinizzato a tal punto da soppiantare le ormai vecchie religioni e trasformare in preghiere gli imperativi della produttività e del tanto agognato progresso. Ogni cosa, in quel mondo nuovo di Huxley, era volta a far girare gli ingranaggi della società nella maniera più efficiente possibile, lasciandosi alle spalle, però, la dignità degli esseri umani.
Nel 1938, invece, a non più di 60 km a nord di Torino, si muovevano i primi passi verso la costruzione di un altro mondo nuovo, questa volta vero, tangibile e diametralmente opposto a quello di Huxley, che rappresentava l’alternativa ai dissidi da sempre nati lungo la turbolenta linea sottesa tra il ruolo dell’industria e le responsabilità nei confronti delle persone. Nel Canavese, infatti, un uomo si apprestava a prendere le redini di quella che di lì a poco sarebbe diventata, con le sue macchine da scrivere, una delle fabbriche più importanti al mondo e che si sarebbe incisa nella pietra come l’esempio più illustre della possibile simbiosi tra industria e società. Ciò che si verificò a cavallo della metà del secolo scorso a Ivrea, dunque, fu qualcosa di probabilmente irripetibile e Adriano Olivetti, il suo fautore, fu un caso più unico che raro di talento industriale, sensibile intellettuale e spiccato visionario. Lui, quella dignità delle persone, decise di porla davanti a tutto, rendendo realtà ciò che tantissimi avrebbero solamente definito un’utopia.
Ivrea, prima dell’avvento di Olivetti, non era altro che una cittadina come le altre, ma dal 1908 si può dire che ebbe inizio la sua seconda vita. Quell’anno, lo stesso in cui Ford lanciava la celebre Model T negli Stati Uniti, l’ingegnere Camillo Olivetti inaugurò, nell’edificio Mattoni Rossi, il primo nucleo produttivo della fabbrica e diede inizio alla produzione della M1, la madre delle celebri macchine da scrivere targate Olivetti, che definirono uno dei più luminosi capitoli della storia del design italiano e mondiale. Il boom, però, si raggiunse con l’avvento alla direzione di Adriano Olivetti che, sulle orme del padre, portò all’ennesima potenza il successo dell’attività. Sul lato produttivo, da quel momento l’azienda poté contare sui migliori designer in circolazione, come Marcello Nizzoli ed Ettore Sottsass per il prodotto e Giovanni Pintori per la grafica. Sul lato sociale, però, è dove egli realizzò la vera magia: riuscì a delineare rapidamente un organismo culturalmente sofisticato, per il quale i luoghi di vita dei lavoratori vennero progettati da illustri architetti e le giornate furono permeate dal sapere declinato in tutte le sue forme, come dimostra la presenza di maestri dell’architettura come Le Corbusier o di personalità del calibro di Pier Paolo Pasolini e Vittorio Gassman, che si trovavano a intrattenere i dipendenti durante la pausa pranzo tra un turno e l’altro.
Non c’è da stupirsi, dunque, se l’architettura a Ivrea non venne mai trattata come una componente secondaria e accessoria alla definizione dell’ideale comunitario di Olivetti. A evidenziare efficacemente tale aspetto fu, per la prima volta, la mostra “Olivetti: design in industry”, tenutasi nel 1952 nelle sale del MoMA di New York per mostrare agli USA un eccellente modello industriale da imitare. Ma ciò, in fondo, era già da tempo sotto gli occhi di tutti, sin da quando, direttamente al di là del fiume rispetto al centro storico, per volere di Adriano nacque il primo nucleo di quella città olivettiana che non avrebbe arrestato la sua espansione fino alla fine degli anni ’60. Stabilimenti industriali, residenze per i dipendenti di ogni grado e strutture ospitanti i più disparati servizi per la comunità, sono questi gli elementi che compongono ciò che oggi risulta essere il più importante lascito dell’intuizione imprenditoriale di Olivetti, più del successo planetario della Lettera 22 e più dello sviluppo di uno dei primi calcolatori elettronici della storia. Adriano volle restituire al territorio e ai propri dipendenti quanto da loro veniva offerto quotidianamente a beneficio dell’industria, alimentando un rapporto di grande complicità e rispetto reciproco, capace di abbattere le barriere dei ruoli e di riconoscere dietro la divisa di ogni lavoratore l’esistenza di una persona.
In occasione di un’intervista condotta da Ugo Gregoretti per la Rai, è lo stesso Sottsass a ricordare che «una delle cose particolari della Olivetti è che era un’industria che non necessariamente puntava al business, ma che aveva un profondo senso etico delle proprie responsabilità e della propria attività. Non per niente Olivetti era l’unico industriale, non dico in Italia ma forse in tutto il mondo, che si preoccupava di come era disegnata la fabbrica e di creare gli asili per i bambini degli operai. Quindi, che aveva dell’industria un senso vasto di responsabilità sociale. Il design per Adriano Olivetti non era soltanto una cipria da mettere sopra al prodotto per venderlo di più, era il metaforizzare la responsabilità continua verso l’ambiente, verso la gente e verso il destino dell’oggetto nella società».
Oggi il corpus architettonico olivettiano è ancora lì dove è stato costruito, anche se a Ivrea l’aria che si respira è quella di una realtà difficile da decodificare nella sua essenza più intima e meno esibita. Gli edifici, parzialmente ancora in uso, hanno l’aspetto dei fossili di un’epoca passata e, sebbene compongano un museo a cielo aperto in cui muoversi lungo via Jervis significa immergersi all’interno di un luogo unico al mondo, di quella spinta visionaria impressa da Olivetti sembrano rimanere solamente delle piccole tracce sui muri scrostati dal tempo. Ivrea ha vissuto due vite, ma dal 2018, con il riconoscimento a patrimonio dell’UNESCO che l’ha battezzata “Ivrea, città industriale del XX secolo”, si è segnata un’altra tappa fondamentale della sua storia, sancendo l’inizio di un nuovo corso, un corso, però, che in sé ha tanto di contraddittorio. Le architetture presenti, infatti, sono ormai il simbolo di un passato con cui gli abitanti sono obbligati a fare i conti e, se da un lato c’è chi porta ancora in segno di riconoscimento i fiori sulla tomba di Adriano, dall’altro ci sono le nuove generazioni che sentono il peso di una storia che non gli appartiene.
Questa complessa convivenza emerge soprattutto quando si cammina tra le zone residenziali, volute da Olivetti per i suoi dipendenti e spuntate a macchia d’olio nelle aree che circondano gli stabilimenti produttivi. Dalle case popolari fino alle villette per i dirigenti, ogni edificio riporta la firma di grandi nomi dell’architettura: Luigi Figini, Gino Pollini, Gian Mario Oliveri e lo stesso Marcello Nizzoli sono tra i più ricorrenti. Non può essere un caso, infatti, che l’esplorazione delle strade di Ivrea coincida con l’osservazione di un panorama proprio di una città moderna, dove la qualità degli edifici si misura costantemente nell’aderenza ai dettami del movimento razionalista. Ciò che a prima vista può sembrare solamente una sovrabbondanza di puri volumi bianchi, però, viene completamente smentita nel momento in cui gli occhi vanno a finire sui dettagli di opere dal carattere ancor più eccezionale. È il caso della famosa Unità Residenziale Ovest che, nota con il nome di “Talponia”, si presenta come un vero e proprio grattacielo orizzontale. Ciò che ha preso forma tra il ’68 e il ‘71 grazie agli architetti Roberto Gabetti e Aimaro Oreglia d’Isola, è una struttura che ha dell’incredibile: 300 metri di un’imponente pianta semicircolare sono nascosti all’interno di un’insospettabile collina artificiale. Arrivando dal vialetto d’accesso non ci si accorge di nulla se non di una piccola altura verde ed è solamente all’ultimo gradino di una ripida scalinata che si capisce di essere arrivati direttamente sul tetto semipavimentato e calpestabile dell’edificio. Al suo interno, distribuiti su due piani, sono 82 gli alloggi che si affacciano verso un cortile centrale come a ricalcare il modello di un anfiteatro dove, al posto delle fredde gradinate in pietra, gli spettatori si godono lo spettacolo da un comodo divano in pelle. Iconici sono gli oblò che spuntano dal terreno e offrono l’illuminazione naturale alla strada, anch’essa sotterranea, che conduce agli accessi delle abitazioni. Ma è solamente affacciandosi dal parapetto metallico, che si riesce ad apprezzare veramente la fusione dell’architettura con l’ambiente, resa evidente dal riflesso degli alberi sulle grandi vetrate degli appartamenti, originariamente arredati su disegno degli architetti e ancora oggi abitati, nonostante le condizioni dell’edificio suggeriscano il contrario.
A Ivrea, però, il cuore del mondo nuovo olivettiano batte lungo il corso di via Jervis dove, per anni, migliaia e migliaia di persone hanno quotidianamente varcato gli ingressi delle Officine ICO, sede della produzione Olivetti fino al 1955. È qui, proprio davanti a un colossale complesso architettonico, che si viene investiti dalla grandezza dei tempi passati. Composto da quattro stabilimenti tra loro collegati, rappresenta a tutti gli effetti la linea temporale della crescita e del successo dell’industria, come se sulla facciata di ogni edificio fosse stata scritta la storia delle avventure che vennero compiute tra le sue mura. A partire dall’originario Mattoni Rossi, sono stati Figini e Pollini, al tempo giovani architetti noti per aver preso parte al Gruppo 7, ad aver progettato tre differenti ampliamenti nel corso di una decina di anni. È così che, dal 1934, la via inizia a mostrare la nuova faccia della modernità e a popolarsi di vetro, il materiale prediletto dagli architetti e da Adriano per rendere chiaro un preciso messaggio: la fabbrica è trasparente, come trasparente è l’operato di tutte le persone che ne sono coinvolte. Ma all’interno, quelli che al tempo erano i più avanzati luoghi per il lavoro, oggi sono perlopiù sterminati spazi vuoti che hanno iniziato una lenta e graduale rinascita, nel tentativo di tornare allo splendore di un tempo facendo frutto delle consapevolezze del presente. E sebbene siano numerose le iniziative e i progetti attualmente in programma per il futuro, come l’intervento di Cino Zucchi per la rigenerazione dell’edificio, a rimbombare tra i labirintici corridoi desolati continuano a rimanere unicamente i lenti passi dei visitatori.
A un simile destino è andato incontro lo stabile che, direttamente dall’altra parte della strada rispetto alle Officine ICO, racconta al meglio la sentita responsabilità etica che Adriano Olivetti nutrì nei confronti della popolazione. Basta attraversare qualche metro di asfalto, dunque, per mettere piede nell’ultimo contributo architettonico che Figini e Pollini progettarono nel Canavese. Il Centro dei Servizi Sociali appare ancora come una boccata d’aria fresca per la città dato che, completato nel 1959, non risulta più una rigorosa scatola bianca razionalista, ma lascia spazio a un linguaggio più articolato basato sulla geometria dell’esagono, l’integrazione con la natura e il dialogo tra interno ed esterno. Le scalinate, che dal livello della strada raggiungono gli ariosi e ampi terrazzi, danno accesso a quelli che un tempo erano gli spazi ospitanti, oltre ai servizi sociali, l’infermeria e la biblioteca. Soprattutto quest’ultima fu un luogo assiduamente frequentato dai dipendenti, all’interno della quale, anche la scomparsa dei libri veniva intesa come un successo nei confronti della proliferazione culturale della comunità. Il Centro dei Servizi Sociali, tuttavia, non è l’unico edificio realizzato per aumentare la qualità di vita della città e, in questi termini, rappresentativo è sicuramente l’Asilo Nido, che i due architetti progettarono tra il 1939 e il 1941 per ospitare e istruire i figli dei dipendenti, oggi cresciuti e diventati gli ultimi abitanti a essere testimoni del miracolo che fu.
Tra i pochi edifici olivettiani ancora in uso, però, ne emerge uno che, se per un verso attira l’attenzione degli appassionati di architetture fuori dal comune, dall’altro cela al suo interno l’intricato rapporto tra passato e presente che il paese continua a portarsi dietro. L’Unità Residenziale Est, nota anche come “Complesso La Serra”, è stato l’ultimo progetto a prendere forma a Ivrea per volere di Olivetti. Nel 1968, a 8 anni dalla scomparsa di Adriano, gli architetti Iginio Cappai e Pietro Mainardis diedero inizio alla costruzione di un colossale centro polifunzionale che eccezionalmente poneva le sue fondamenta all’interno del centro storico del paese. Con una forte dicotomia rispetto al panorama cittadino circostante, accentuata dalla presenza di antichi scavi romani presenti nel sito, l’architettura dall’aspetto spaziale sembrava a tutti gli effetti una navicella appena atterrata dal cielo. Al suo interno trovavano spazio gli ambienti più disparati come un cinema, una sala concerti, un hotel e numerose cellule abitative, ma anche un ristorante e una piscina. Il tutto articolato secondo un labirintico sistema di passerelle, scalinate e corridoi che, se da un lato rendeva completamente permeabile la struttura ai flussi delle persone, dall’altro delineava entro un perimetro di cemento una microcittà a sé stante. Anche qui la patina dell’abbandono sembra oggi ormai irremovibile: da un’architettura che per la sua forma voleva rendere omaggio all’operato di Olivetti, ricalcando con le sue forme la struttura di una macchina da scrivere, si è oggi arrivati a prendere coscienza dell’invadenza di un passato che ha smesso di rispondere ai più recenti cambiamenti avvenuti nel tessuto sociale del paese. Al suo interno vivono ancora decine di inquilini e, oltre a un paio di negozi che si affacciano sulla strada, le uniche attività a sfruttare gli spazi del complesso sono una palestra e l’originale piscina sotterranea rimasta immutata, mentre il resto è chiuso a chiave dietro a porte vetrate rese opache dalla polvere. È chiaro che il “Complesso La Serra” non mente e, a chi cerca risposte, mostra limpida la vera natura del rap- porto che gli attuali abitanti di Ivrea hanno nei confronti dei fossili dell’ormai perduto mondo nuovo di Olivetti, un rapporto costituito dall’inconciliabile nostalgia per un tempo passato e il desiderio di voltare definitivamente pagina.