Il 6 ottobre 1924, alle ore 21.00 la violinista e conduttrice radiofonica Ines Viviani Donarelli annuncia un concerto di musica classica eseguito da due quartetti e saluta la nazione italiana. Oggi quella trasmissione compie cento anni e si tratta della prima comunicazione commerciale mai avvenuta via etere in Italia – vera a propria nascita della radio come la conosciamo oggi. A quel punto la carta stampata si dava per morta e il mondo dell’informazione – dicevano – sarebbe stato rivoluzionato per sempre. In effetti la radio ha cambiato le abitudini e i movimenti culturali degli italiani: ha reso possibile il racconto delle notizie in presa diretta senza l’attesa del quotidiano del giorno dopo, ma soprattutto ha avviato un accesso più democratizzato – anche per chi l’italiano non lo sapeva leggere – alla vita culturale, politica ed economica del Paese.
La tecnologia radio nasce nel 1894 e la paternità è di Guglielmo Marconi, bolognese che la brevetta in Inghilterra. Nei primi anni del Novecento il radio design è materia per amatori che si servono di apparecchi costruiti artigianalmente: dobbiamo aspettare gli anni Trenta perché la radio attiri le attenzioni dei progettisti. Nel 1933 la rivista Domus, diretta da Giò Ponti, bandisce un grande concorso nazionale per progettare un modello mobile di radio che non nascondesse il suono «in un credenzone gotico, in un comò Queen Anne o in una libreria Tudor», come invece accadeva oltreoceano. Il primo modello standardizzato di radiogrammofono prodotto in Italia prende perciò il nome dalla rivista di Ponti e – lontano dall’idea di un mobile decorativo e fisso – si sviluppa orizzontalmente per poter essere inserito in differenti tipi di ambiente. È un primo accenno all’idea di un suono trasportabile, extradomestico e democratizzato – anche se il costo dell’apparecchio rimane ancora inaccessibile ai più.
Gli anni del Dopoguerra sono quelli in cui la radio italiana si democratizza: l’ orizzontalizzazione progettata da Domus aveva avuto l’effetto di abbassare i costi di produzione e nello stesso periodo la radiofonia si affermava come mezzo di informazione indipendente, oltre il controllo fascista, superando i quattro milioni di abbonati. In quel momento, si fanno strada sul mercato aziende come la tedesca Braun, ispirata dal minimalismo Bauhaus, la Ducati e l’italiana Brionvega, che attira contributi di progettisti quali i fratelli Castiglioni. Il radiofonografo RR126 è forse il contributo più audace di quell’epoca: progettato nel 1965 da Achille e Pier Giacomo Castiglioni, si compone di un supporto in fusione in alluminio con quattro ruote e un corpo centrale che sembra assumere la forma di uno smile. È trasportabile ma anche componibile, nel senso che le casse possono assumere tre collocazioni differenti: se poste in alto a formare un cubo, di lato per ottenere un parallelepipedo, e soprattutto possono essere allontanate a piacimento, sparpagliate per la casa, come se dal nostro smile partissero due lunghe braccia di cavi. All’epoca la modulabilità e le geometrie variabili sono al centro delle sperimentazioni europee non solo nel campo del design: nelle arti visive emergono correnti come l’arte cinetica che introducono il movimento e la cacofonia nell’opera d’arte. Nel design italiano queste sperimentazioni risultano perlopiù in giochi ideati dai designer per il nuovo consumatore che non vuole solo consumare, ma anche progettare.
Radio Vision 2000 di Thilo Oerke per Rosita
Il radiofonografo rr126 di Achille e Pier Giacomo Castiglioni per Brionvega
Gli anni Settanta sventrano il monopolio della radio di stato e la RAI (Radio Audizioni Italiane) lascia spazio ai media radiofonici privati: spuntano radio libere e stazioni indipendenti che offrono un nuovo tipo di informazione – militante e partigiana – ma che pure sfidano creativamente i limiti del mezzo di produzione. Un esempio di queste indagini sono i radiodrammi – il più conosciuto è quello di Orson Welles che nel 1938, con un approccio pionieristico, rielabora il romanzo La Guerra dei Mondi di H. G. Wells raccontando un’invasione aliena con lo stile della cronaca giornalistica. Alla fine degli anni Cinquanta l’Italia, con fulcro a Milano, si erge a terzo polo europeo per gli esperimenti di musica contemporanea con le nuove apparecchiature. I compositori Luciano Berio e Bruno Maderna fondano infatti lo Studio di fonologia musicale Rai: un centro di sperimentazione per la musica elettronica e concreta che nel tempo accoglie musicisti e musicologi come John Cage, l’unico che fino ad allora era stato in grado di far suonare il silenzio.
In questo contesto, l’evoluzione progettuale e quella creativa si accompagnano e l’allunaggio americano del 1969 dà il via a un nuovo immaginario che vede la radio come un mezzo di informazione sospeso nell’etere, così ramificato da permettere di comunicare anche nello spazio. A ben rappresentare la svolta della “Space Age” troviamo alcuni modelli dalla forma cilindrica, leggera e sospesa, come quella di una navicella, e dal contenuto imprevedibile, come l’impianto stereo Radio Vision 2000 di Thilo Oerke per Rosita o lo stereo Pop 70 progettato per Blaupunkt da Hans Vagt e Peter Bannert nel 1969.
Pop 70 di Hans Vagt e Peter Bannert per Blaupunkt
Ora la ascoltiamo in macchina, sui cellulari e in televisione: la radio è diventata un concetto trasportabile su più dispositivi, sempre meno legato alla forma che assume nello spazio. Non sono mancati però dagli anni Ottanta a oggi i tentativi di lanciare nuovi messaggi con il radio design. Penso alla Pop Shop Transistor progettata da Keith Haring che, rifacendosi al mondo dei graffitisti newyorkesi, ci rimanda alle immagini di vagoni della metro che dai quartieri più poveri si muovono verso il centro e riportano su di loro tag, messaggi di protesta, opere e disegni – delle comunicazioni dalla periferia al cuore della grande mela, un omaggio a ciò che la radio è sempre stata: un mezzo democratico sul quale davvero tutti possono sintonizzarsi.